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mercoledì 14 ottobre 2009

In Cielo c'è un angelo che prega per noi - Testimonianza d'amore

 
Un convegno organizzato a Fossano dall’Associazione Giovanni XXIII di don Oreste Benzi si è occupato di aborto terapeutico.
In quell’occasione abbiamo raccolto la stupenda testimonianza di una donna che non solo ha saputo accogliere fino in fondo una figlia anencefala e condannata a morire a pochi minuti dalla nascita, ma che,
da quella esperienza, ha imparato che la vita è sempre vita a prescindere dalle malattie che possono affliggerla o dalla durata che il fato - o la Provvidenza - ci ha riservato. Oggi quella donna e suo marito vivono con i loro figli e con un bambino adottato gravemente cerebroleso. E tutti insieme, tutte le sere, si affidano alla piccola Sara che da lassù veglia su di loro.

Nei primi mesi del 1989 la stampa fiorentina, ma un po’ anche quella nazionale, si occupò con mille polemiche dell’aborto eseguito in un ospedale di Fiesole da una giovane donna, sposata, che desiderava avere un figlio, ma che nel controllo ecografico si era trovata madre di due gemelli, uno sano e l’altro malato. Anzi, il secondo era affetto da una gravissima malformazione, l’anencefalia, che lo avrebbe condotto a morte sicura immediatamente dopo il parto. La gravidanza era prossima al 5° mese e i medici non ebbero dubbi nel consigliare l’aborto. L’ipocrisia della legge 194 non consente l’aborto eugenetico dopo il 3° mese di gestazione; né prevede che per anticipare di 3 o 4 mesi la morte sicura di un figlio si possa uccidere anche il fratello sano che potrebbe vivere una esistenza normale.
Ma il grimaldello, in questi casi, è la “malattia psichica” della madre. Così la certificazione, non di una commissione di psichiatri, e neppure di un solo psichiatra, ma di un medico ginecologo condannò a morte due gemelli, uno sano e l’altro handicappato. Si potrebbe dire, restando nella logica “abortista”, “inutilmente”, perché il disabile sarebbe comunque morto entro poco tempo.
Anche se vogliamo pensare soltanto alla madre è da chiedersi se la sua sofferenza per tre mesi di gravidanza con un invisibile gemello malato nel seno ma senza alcun rischio per lei sarebbe stata maggiore di quella derivata dalla assenza per una intera vita di un figlio sano.
Questa vicenda mi è tornata alla mente durante un convegno organizzato a Fossano il 14 febbraio dalla Associazione Papa Giovanni XXIII sull’aborto cosiddetto terapeutico, ascoltando la commovente testimonianza dei coniugi Elena e Flavio Zanini. Valeva la pena, dopo il convegno, raggiungere lei e chiederle di raccontare la sua storia anche a Sì alla vita.


Elena è infermiera, il marito è educatore professionale in un centro diurno. Lei di malattia e di dolore se ne intende, perché lavorava nel reparto di rianimazione. Si è messa a casa da quando insieme al marito ha preso in affidamento, sei anni fa, un bambino che è celebroleso, affetto da displasia spastica. Allora aveva solo una bambina sua, Anna, che ora ha sei anni ed allora aveva sei mesi. Ora ha anche partorito Elena di 4 anni e Pietro di due. Ma è di un’altra figlia che voglio parlare: la primogenita, Sara, morta tra le braccia della mamma appena nata, perché affetta da anencefalia. Un caso simile a quello di Firenze dell’89.
Come seppe di questa terribile malformazione?
Alla ventesima settimana, quando mi sottoposi alla prima ecografia, l’impatto fu tremendo. La rottura di un sogno. Essendo infermiera capii subito e del resto l’ecografista mi spiegò bene. Tutti i presenti cambiarono subito atteggiamento. Qualcuno mi offrì un bicchiere d’acqua. Nessuno parlò di aborto, ma i medici dissero che bisognava subito fare un’intervento, mettere delle candelette. Spiegarono che tutto sarebbe stato rapido.
Quali sono stati i suoi sentimenti immediati?
Un senso di lutto. Una situazione senza speranza. Una malattia mia, diagnosticata. Tornai a casa con mio marito con il ricovero per l’intervento già fissato per il giorno dopo. Ero come stordita.
Come e perché ha portato avanti la gravidanza?
Nel pomeriggio di quello stesso giorno mia cognata e mio marito mi misero in contatto con il dr. Campanella, medico impegnato nel Movimento per la vita. Così il giorno successivo feci rinviare gli esami di ricovero. Dissi che volevo pensarci e andai a fare un nuovo controllo nell’ospedale di Savigliano dove lavorava Campanella. C’erano anche altri medici. C’era anche il primario. Purtroppo la diagnosi venne confermata e mi dissero di abortire: “la gravidanza è fatta per portare la vita, non la morte”, mi dissero. Ma il dr. Campanella mi chiamò in privato e mi disse: “lei non ha bisogno di uno psichiatra, ma di una persona con cui parlare. C’è un sacerdote di sua fiducia?”
Io sapevo che non c’era rischio per la mia vita. Andai da un sacerdote che conoscevo da molto tempo. Mi disse: “Pensa a Maria. Anche la sua vita è stata sconvolta. Non ha scelto”. Mi ricordai che poco tempo prima in un Convegno avevo incontrato una coppia che aveva avuto l’esperienza della attesa di un figlio handicappato. Riuscii ad incontrarla. Mi dissero: “leggi il capitolo IV della Sapienza”. Vi ho trovato un brano che poi ho fatto leggere al funerale di Sara: vi si dice che il giusto vive per poco tempo, perché subito deve tornare da Dio. Devo aggiungere che mio marito non è stato mai favorevole alla Ivg e mi è sempre stato vicino affettivamente. Per una settimana io sono rimasta frastornata. Ma con il passare delle ore ho cominciato a sentire i movimenti della bambina. Forse la situazione drammatica mi ha fatto avvertire un contatto maggiore con questa figlia.
Come ha passato il tempo restante della gravidanza?
Ci sono stati anche momenti di depressione, ma nel complesso ho vissuto in una situazione di grazia! Mi gustavo il tempo che dovevo passare con la mia creatura… Ho preso coscienza di cosa vuol dire essere madre. Avevo poco tempo da stare con mia figlia e volevo viverlo intensamente. Anche mio marito mi è apparso una grande grazia, con la sua forza e la sua vicinanza. Certo: quando mi domandavano: “è maschio o femmina?”, o quando andai a comprare la vestaglia per andare a partorire qualcosa lacrimava dentro… E’ nata all’8° mese. Me l’hanno messa in braccio ancora con il funicolo attaccato e subito è morta sul cuore della sua mamma. Tutti piangevano. Io no. Io sono molto emotiva ma le parlai. Avevo la sensazione di aver fatto tutto quello che dovevo e quindi sentivo una gran pace dentro. La bimba fu battezzata dall’ostetrica quand’era ancora impegnata nel parto.
Come vive il ricordo?
Tanta croce, ma anche tanta grazia. Non vado spesso al cimitero ma tutte le sere le preghiere della mia famiglia si concludono con le parole “Sara, prega per noi”. Ella mi appare come un angelo dato alla mia famiglia. Io l’ho accolta. Quindi a maggior ragione ella mi restituisce il bene che le ho voluto. Gli altri figli sanno di avere una sorellina in Paradiso. Solo domandano: “ma perché Gesù non ce l’ha lasciata?”.
C’è qualche rapporto tra la vicenda di Sara e l’affidamento di un bimbo celebroleso?
Sì, certo. Ma non così automaticamente. L’estate dopo il parto e la morte di Sara andammo al mare. Vicino a noi c’erano dei ragazzi con handicap e per la prima volta ho sentito il rifiuto: il rifiuto di avere un figlio con handicap. Ma con il passare del tempo mio marito ed io abbiamo sentito il desiderio di condividere la nostra vita con chi ti fa paura, che ti richiama alla precarietà, al limite.
Lasciai il lavoro, perché certamente non avrei potuto seguire insieme la famiglia e il lavoro… Il fatto decisivo è stato l’incontro con la Comunità Papa Giovanni XXIII. Ci mettemmo alla ricerca e alla fine in essa ci sentimmo a casa.
Cosa direbbe a una donna che oggi si trovasse nelle condizioni da lei vissute?
Oggi l’aborto è propagandato da tutti come una soluzione. Si dice “non possiamo mettere al mondo figli per farli soffrire”. Di fronte ad una madre con un figlio disabile prima c’era il compatimento, nel senso etimologico della parola, come patire insieme. Ora sei giudicata come una incosciente. Perciò in primo luogo direi di buttarsi dietro le spalle questi giudizi. Ai cristiani direi di immergersi nel Dio della vita. E poi suggerirei di mettersi in contatto con il figlio portato in seno, di credere che lui vuole stare con te. Anche io avevo paura. Ma un bambino malato non chiede di essere ucciso. Chiede di essere accompagnato. Vuole la mamma vicino.
 

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